The work of Giacomo Leopardi (1798-1837) contained a shock of recognition for me when — far too late in life* — I encountered it. This long poem, La ginestra, which the great poet composed in 1836, expounds much of my own view of the world, and thereby that world-outlook that ultimately underlies the para-literary efforts found on this site, and does so far more brilliantly than I ever could myself. So it seems only fitting that I should include a page dedicated to it.
The left-hand column is Leopardi’s original Italian text (taken from this source), the right are a rendition of the same into English by A.S. Kline from his translation of Leopardi’s Canti, and is reproducible for any non-commercial purpose.
Καὶ ἠγάπησαν οἱ ἄνθρωποι μᾶλλον τὸ σκότος ἢ τὸ φῶς E gli uomini vollero piuttosto le tenebre che la luce. Giovanni, III, 19 Qui su l’arida schiena Del formidabil monte Sterminator Vesevo, La qual null’altro allegra arbor né fiore, Tuoi cespi solitari intorno spargi, Odorata ginestra, Contenta dei deserti. Anco ti vidi De’ tuoi steli abbellir l’erme contrade Che cingon la cittade La qual fu donna de’ mortali un tempo, E del perduto impero Par che col grave e taciturno aspetto Faccian fede e ricordo al passeggero. Or ti riveggo in questo suol, di tristi Lochi e dal mondo abbandonati amante, E d’afflitte fortune ognor compagna. Questi campi cosparsi Di ceneri infeconde, e ricoperti Dell’impietrata lava, Che sotto i passi al peregrin risona; Dove s’annida e si contorce al sole La serpe, e dove al noto Cavernoso covil torna il coniglio; Fur liete ville e colti, E biondeggiàr di spiche, e risonaro Di muggito d’armenti; Fur giardini e palagi, Agli ozi de’ potenti Gradito ospizio; e fur città famose Che coi torrenti suoi l’altero monte Dall’ignea bocca fulminando oppresse Con gli abitanti insieme. Or tutto intorno Una ruina involve, Dove tu siedi, o fior gentile, e quasi I danni altrui commiserando, al cielo Di dolcissimo odor mandi un profumo, Che il deserto consola. A queste piagge Venga colui che d’esaltar con lode Il nostro stato ha in uso, e vegga quanto È il gener nostro in cura All’amante natura. E la possanza Qui con giusta misura Anco estimar potrà dell’uman seme, Cui la dura nutrice, ov’ei men teme, Con lieve moto in un momento annulla In parte, e può con moti Poco men lievi ancor subitamente Annichilare in tutto. Dipinte in queste rive Son dell’umana gente Le magnifiche sorti e progressive. |
‘And men loved darkness rather than the light’ –John, III:19 Fragrant broom, content with deserts: here on the arid slope of Vesuvius, that formidable mountain, the destroyer, that no other tree or flower adorns, you scatter your lonely bushes all around. I’ve seen before how you beautify empty places with your stems, circling the City once the mistress of the world, and it seems that with their grave, silent, aspect they bear witness, reminding the passer-by of that lost empire. Now I see you again on this soil, a lover of sad places abandoned by the world, a faithful friend of hostile fortune. These fields scattered with barren ash, covered with solid lava, that resounds under the traveller’s feet: where snakes twist, and couple in the sun, and the rabbits return to their familiar cavernous burrows: were once happy, prosperous farms. They were golden with corn, echoed to lowing cattle: there were gardens and palaces, the welcome leisure retreats for powerful, famous cities, which the proud mountain crushed with all their people, beneath the torrents from its fiery mouth. Now all around is one ruin, where you root, gentle flower, and as though commiserating with others’ loss, send a perfume of sweetest fragrance to heaven, that consoles the desert. Let those who praise our existence visit these slopes, to see how carefully our race is nurtured by loving Nature. And here they can justly estimate and measure the power of humankind, that the harsh nurse, can with a slight movement, obliterate one part of, in a moment, when we least fear it, and with a little less gentle a motion, suddenly, annihilate altogether. The ‘magnificent and progressive fate’ of the human race is depicted in this place. |
Qui mira e qui ti specchia, Secol superbo e sciocco, Che il calle insino allora Dal risorto pensier segnato innanti Abbandonasti, e volti addietro i passi, Del ritornar ti vanti, E procedere il chiami. Al tuo pargoleggiar gl’ingegni tutti, Di cui lor sorte rea padre ti fece, Vanno adulando, ancora Ch’a ludibrio talora T’abbian fra sé. Non io Con tal vergogna scenderò sotterra; Ma il disprezzo piuttosto che si serra Di te nel petto mio, Mostrato avrò quanto si possa aperto: Ben ch’io sappia che obblio Preme chi troppo all’età propria increbbe. Di questo mal, che teco Mi fia comune, assai finor mi rido. Libertà vai sognando, e servo a un tempo Vuoi di novo il pensiero, Sol per cui risorgemmo Della barbarie in parte, e per cui solo Si cresce in civiltà, che sola in meglio Guida i pubblici fati. Così ti spiacque il vero Dell’aspra sorte e del depresso loco Che natura ci diè. Per questo il tergo Vigliaccamente rivolgesti al lume Che il fe’ palese: e, fuggitivo, appelli Vil chi lui segue, e solo Magnanimo colui Che sé schernendo o gli altri, astuto o folle, Fin sopra gli astri il mortal grado estolle. |
Proud, foolish century, look, and see yourself reflected, you who’ve abandoned the path, marked by advancing thought till now, and reversed your steps, boasting of this regression you call progress. All the intellectuals, whose evil fate gave them you for a father, praise your babbling, though they often make a mockery of you, among themselves. But I’ll not vanish into the grave in shame: As far as I can, I’ll demonstrate, the scorn for you, openly, that’s in my heart, though I know oblivion crushes those hated by their own time. I’ve already mocked enough at that fate I’ll share with you. You pursue Freedom, yet want thought to be slave of a single age again: by thought we’ve risen a little higher than barbarism, by thought alone civilisation grows, only thought guides public affairs towards the good. The truth of your harsh fate and the lowly place Nature gave you displease you so. Because of it you turn your backs on the light that illuminated you: and in flight, you call him who pursues it vile, and only him great of heart who foolishly or cunningly mocks himself or others, praising our human state above the stars. |
Uom di povero stato e membra inferme Che sia dell’alma generoso ed alto, Non chiama sé né stima Ricco d’or né gagliardo, E di splendida vita o di valente Persona infra la gente Non fa risibil mostra; Ma sé di forza e di tesor mendico Lascia parer senza vergogna, e noma Parlando, apertamente, e di sue cose Fa stima al vero uguale. Magnanimo animale Non credo io già, ma stolto, Quel che nato a perir, nutrito in pene, Dice, a goder son fatto, E di fetido orgoglio Empie le carte, eccelsi fati e nove Felicità, quali il ciel tutto ignora, Non pur quest’orbe, promettendo in terra A popoli che un’onda Di mar commosso, un fiato D’aura maligna, un sotterraneo crollo Distrugge sì, che avanza A gran pena di lor la rimembranza. Nobil natura è quella Che a sollevar s’ardisce Gli occhi mortali incontra Al comun fato, e che con franca lingua, Nulla al ver detraendo, Confessa il mal che ci fu dato in sorte, E il basso stato e frale; Quella che grande e forte Mostra sé nel soffrir, né gli odii e l’ire Fraterne, ancor più gravi D’ogni altro danno, accresce Alle miserie sue, l’uomo incolpando Del suo dolor, ma dà la colpa a quella Che veramente è rea, che de’ mortali Madre è di parto e di voler matrigna. Costei chiama inimica; e incontro a questa Congiunta esser pensando, Siccome è il vero, ed ordinata in pria L’umana compagnia, Tutti fra sé confederati estima Gli uomini, e tutti abbraccia Con vero amor, porgendo Valida e pronta ed aspettando aita Negli alterni perigli e nelle angosce Della guerra comune. Ed alle offese Dell’uomo armar la destra, e laccio porre Al vicino ed inciampo, Stolto crede così qual fora in campo Cinto d’oste contraria, in sul più vivo Incalzar degli assalti, Gl’inimici obbliando, acerbe gare Imprender con gli amici, E sparger fuga e fulminar col brando Infra i propri guerrieri. Così fatti pensieri Quando fien, come fur, palesi al volgo, E quell’orror che primo Contra l’empia natura Strinse i mortali in social catena, Fia ricondotto in parte Da verace saper, l’onesto e il retto Conversar cittadino, E giustizia e pietade, altra radice Avranno allor che non superbe fole, Ove fondata probità del volgo Così star suole in piede Quale star può quel ch’ha in error la sede. |
A man generous and noble of soul, of meagre powers and weak limbs, doesn’t boast and call himself strong and rich in possessions, doesn’t make a foolish pretence of splendid living or cutting a fine figure among the crowd: but allows himself to appear as lacking wealth and power, and says so, openly, and gives a true value to his worth. I don’t consider a man a great-hearted creature, but stupid, who, born to die, nurtured in pain, says he is made for joy, and fills pages with the stench of pride, promising an exalted destiny on earth, and a new happiness, unknown to heaven much less this world, to people whom a surging wave, a breath of malignant air, a subterranean tremor, destroys so utterly that they scarcely leave a memory behind. He has a noble nature who dares to raise his voice against our common fate, and with an honest tongue, not compromising truth, admits the evil fate allotted us, our low and feeble state: a nature that shows itself strong and great in suffering, that does not add to its miseries with fraternal hatred and anger, things worse than other evils, blaming mankind for its sorrows, but places blame on Her who is truly guilty, who is the mother of men in bearing them, their stepmother in malice. They call her enemy: and consider the human race to be united, and ranked against her, from of old, as is true, judge all men allies, embrace all with true love, offering sincere prompt support, and expecting it in the various dangers and anguish of the mutual war on her. And think it as foolish to take up arms against men and set up nets and obstacles against their neighbours as it would be in war, surrounded by the opposing army, in the most intense heat of battle, to start fierce struggles with friends, forgetting the enemy, to incite desertion, and wave their swords among their own forces. If such thoughts were revealed to the crowd, as they used to be, along with the horror that first brought men together in social contract against impious Nature, then by true wisdom the honest, lawful intercourse of citizens would be partly renewed, and justice and piety, would own to another root than foolish pride, on which the morals of the crowd are as well founded as anything else that’s based on error. |
Sovente in queste rive, Che, desolate, a bruno Veste il flutto indurato, e par che ondeggi, Seggo la notte; e su la mesta landa In purissimo azzurro Veggo dall’alto fiammeggiar le stelle, Cui di lontan fa specchio Il mare, e tutto di scintille in giro Per lo vòto seren brillare il mondo. E poi che gli occhi a quelle luci appunto, Ch’a lor sembrano un punto, E sono immense, in guisa Che un punto a petto a lor son terra e mare Veracemente; a cui L’uomo non pur, ma questo Globo ove l’uomo è nulla, Sconosciuto è del tutto; e quando miro Quegli ancor più senz’alcun fin remoti Nodi quasi di stelle, Ch’a noi paion qual nebbia, a cui non l’uomo E non la terra sol, ma tutte in uno, Del numero infinite e della mole, Con l’aureo sole insiem, le nostre stelle O sono ignote, o così paion come Essi alla terra, un punto Di luce nebulosa; al pensier mio Che sembri allora, o prole Dell’uomo? E rimembrando Il tuo stato quaggiù, di cui fa segno Il suol ch’io premo; e poi dall’altra parte, Che te signora e fine Credi tu data al Tutto, e quante volte Favoleggiar ti piacque, in questo oscuro Granel di sabbia, il qual di terra ha nome, Per tua cagion, dell’universe cose Scender gli autori, e conversar sovente Co’ tuoi piacevolmente, e che i derisi Sogni rinnovellando, ai saggi insulta Fin la presente età, che in conoscenza Ed in civil costume Sembra tutte avanzar; qual moto allora, Mortal prole infelice, o qual pensiero Verso te finalmente il cor m’assale? Non so se il riso o la pietà prevale. |
Often I sit here, at night, on these desolate slopes, that a hardened lava-flow has clothed with brown, and which seem to undulate still, and over the gloomy waste, I see the stars flame, high in the purest blue, mirrored far off by the sea: the universe glittering with sparks that wheel through the tranquil void. And then I fix my eyes on those lights that seem pin-pricks, yet are so vast in form that earth and sea are really a pin-prick to them: to whom man, and this globe where man is nothing, are completely unknown: and gazing at those still more infinitely remote, knots, almost, of stars, that seem like mist to us, to which not only man and earth but all our stars, infinite in number and mass, with the golden sun, are unknown, or seem like points of misted light, as they appear from earth: what do you seem like, then, in my thoughts, O children of mankind? And mindful of your state here below, of which the ground I stand on bears witness, and that, on the other hand, you believe that you’ve been appointed the master and end of all things: and how often you like to talk about the creators of all things universal, who descended to this obscure grain of sand called earth, for you, and happily spoke to you, often: and that, renewing these ridiculous dreams, you still insult the wise, in an age that appears to surpass the rest in knowledge and social customs: what feeling is it, then, wretched human race, what thought of you finally pierces my heart? I don’t know if laughter or pity prevails. |
Come d’arbor cadendo un picciol pomo, Cui là nel tardo autunno Maturità senz’altra forza atterra, D’un popol di formiche i dolci alberghi, Cavati in molle gleba Con gran lavoro, e l’opre E le ricchezze che adunate a prova Con lungo affaticar l’assidua gente Avea provvidamente al tempo estivo, Schiaccia, diserta e copre In un punto; così d’alto piombando, Dall’utero tonante Scagliata al ciel profondo, Di ceneri e di pomici e di sassi Notte e ruina, infusa Di bollenti ruscelli O pel montano fianco Furiosa tra l’erba Di liquefatti massi E di metalli e d’infocata arena Scendendo immensa piena, Le cittadi che il mar là su l’estremo Lido aspergea, confuse E infranse e ricoperse In pochi istanti: onde su quelle or pasce La capra, e città nove Sorgon dall’altra banda, a cui sgabello Son le sepolte, e le prostrate mura L’arduo monte al suo piè quasi calpesta . Non ha natura al seme Dell’uom più stima o cura Che alla formica: e se più rara in quello Che nell’altra è la strage, Non avvien ciò d’altronde Fuor che l’uom sue prosapie ha men feconde. |
As a little apple that falls from a tree: late autumn ripeness, and nothing else, bringing it to earth: crushes, wastes, and covers in a moment, the sweet nests of a tribe of ants, carved out of soft soil, with vast labour, and the works, the wealth, that industrious race had vied to achieve, with such effort, and created in the summer: so the cities of the farthest shores that the sea bathed, were shattered, confounded, covered in a few moments, by a night of ruin, by ashes, lava and stones, hurled to the heights of heaven from the womb of thunder, falling again from above, mingled in molten streams, or by the vast overflow of liquefied masses, metals and burning sand, descending the mountainside racing over the grass: so that now the goats graze above them, and new cities rise beside them, whose base is their buried, demolished walls that the cruel mountain seems to crush underfoot. Nature has no more love or care for the seed of man than for the ants: and if the destruction of one is rarer than that of the other, it’s for no other reason than that mankind is less rich in offspring. |
Ben mille ed ottocento Anni varcàr poi che spariro, oppressi Dall’ignea forza, i popolati seggi, E il villanello intento Ai vigneti, che a stento in questi campi Nutre la morta zolla e incenerita, Ancor leva lo sguardo Sospettoso alla vetta Fatal, che nulla mai fatta più mite Ancor siede tremenda, ancor minaccia A lui strage ed ai figli ed agli averi Lor poverelli. E spesso Il meschino in sul tetto Dell’ostel villereccio, alla vagante Aura giacendo tutta notte insonne, E balzando più volte, esplora il corso Del temuto bollor, che si riversa Dall’inesausto grembo Su l’arenoso dorso, a cui riluce Di Capri la marina E di Napoli il porto e Mergellina. E se appressar lo vede, o se nel cupo Del domestico pozzo ode mai l’acqua Fervendo gorgogliar, desta i figliuoli, Desta la moglie in fretta, e via, con quanto Di lor cose rapir posson, fuggendo, Vede lontan l’usato Suo nido, e il picciol campo, Che gli fu dalla fame unico schermo, Preda al flutto rovente, Che crepitando giunge, e inesorato Durabilmente sovra quei si spiega. Torna al celeste raggio Dopo l’antica obblivion l’estinta Pompei, come sepolto Scheletro, cui di terra Avarizia o pietà rende all’aperto; E dal deserto foro Diritto infra le file Dei mozzi colonnati il peregrino Lunge contempla il bipartito giogo E la cresta fumante, Che alla sparsa ruina ancor minaccia. E nell’orror della secreta notte Per li vacui teatri, Per li templi deformi e per le rotte Case, ove i parti il pipistrello asconde, Come sinistra face Che per vòti palagi atra s’aggiri, Corre il baglior della funerea lava, Che di lontan per l’ombre Rosseggia e i lochi intorno intorno tinge. Così, dell’uomo ignara e dell’etadi Ch’ei chiama antiche, e del seguir che fanno Dopo gli avi i nepoti, Sta natura ognor verde, anzi procede Per sì lungo cammino Che sembra star. Caggiono i regni intanto, Passan genti e linguaggi: ella nol vede: E l’uom d’eternità s’arroga il vanto. |
Fully eighteen hundred years have passed, since those once-populated cities vanished, crushed by fiery force, yet the farmer intent on his vines, this dead and ashen soil barely nourishes, still lifts his gaze with suspicion, to the fatal peak that sits there brooding, no gentler than ever, still threatening to destroy him, his children, and his meagre possessions. And often the wretch, lying awake on the roof of his house, where the wandering breezes blow at night, jumps up now and again, and checks the course of the dreadful boiling, that pours from that inexhaustible lap onto its sandy slopes, and illuminates the bay of Capri, the ports of Naples and Mergellina. And if he sees it nearing, or hears the water bubbling, feverishly, deep in the well, he wakes his children, quickly wakes his wife, and fleeing, with whatever of their possessions they can grasp, watches from the distance, as his familiar home, and the little field his only defence against hunger, fall prey to the burning tide, crackling as it arrives, inexorably spreading over all this, and hardening. Lifeless Pompeii returns to the light of heaven after ancient oblivion, like a buried skeleton, that piety or the greed for land gives back to the open air: and, from its empty forum, through the ranks of broken columns, the traveller contemplates the forked peak and the smoking summit, that still threatens the scattered ruins. And, like night’s secret horror, through the empty theatres, the twisted temples, the shattered houses, where the bat hides its brood, like a sinister brand that circles darkly through silent palaces, the glow of the deathly lava runs, reddening the shadows from far away, staining the region round. So, indifferent to man, and the ages he calls ancient, and the way descendants follow on from their ancestors, Nature, always green, proceeds instead by so long a route she seems to remain at rest. Meanwhile empires fall, peoples and tongues pass: She does not see: and man lays claim to eternity’s merit. |
E tu, lenta ginestra, Che di selve odorate Queste campagne dispogliate adorni, Anche tu presto alla crudel possanza Soccomberai del sotterraneo foco, Che ritornando al loco Già noto, stenderà l’avaro lembo Su tue molli foreste. E piegherai Sotto il fascio mortal non renitente Il tuo capo innocente: Ma non piegato insino allora indarno Codardamente supplicando innanzi Al futuro oppressor; ma non eretto Con forsennato orgoglio inver le stelle, Né sul deserto, dove E la sede e i natali Non per voler ma per fortuna avesti; Ma più saggia, ma tanto Meno inferma dell’uom, quanto le frali Tue stirpi non credesti O dal fato o da te fatte immortali. |
And you, slow-growing broom, who adorn this bare landscape with fragrant thickets, you too will soon succumb to the cruel power of subterranean fire, that, revisiting places it knows, will stretch its greedy margin over your soft forest. And you’ll bend your innocent head, without a struggle, beneath that mortal burden: yet a head that’s not been bent in vain in cowardly supplication before a future oppressor: nor lifted in insane pride towards the stars, or beyond the desert, where your were born and lived, not through intent, but chance: and you’ll have been so much wiser so much less unsound than man, since you have never believed your frail species, can be made immortal by yourself, or fate. |
*I owe the discovery to Sebastiano Timpanaro, whose Sul materialismo (1970), English language edition On Materialism translated by Lawrence Garner (London: NLB, 1975) makes frequent and generous reference to Leopardi, thereby pointing him out as Someone to Read. I read Timpanaro a lot in my undergraduate days. But as I was then young and dumb I didn’t take the hint, and it was only in recent years when I returned, out of nostalgia, perhaps, to my now-yellowing-with-age copy of On Materialism and was guided to Leopardi, for whom I was then ready, I suppose.